CORTE COSTITUZIONALE E BLOCCO PENSIONI

 

 

“Gentile sig./ra o Gentile Avv. in riscontro alla sua richiesta di rivalutazione del trattamento pensionistico in godimento per gli anni dal 2012 al 2015 a seguito della sentenza n. 70/2015 della Corte Costituzionale, si comunica che la stessa non può essere accolta in quanto l’Istituto ha già pienamente adempiuto, dando puntuale esecuzione alle previsioni contenute nel DL n. 65/2015 convertito in legge n. 109/2015 che disciplinano la materia”.
Con questa brevissima lettera, in spedizione in questi giorni, l’INPS ha chiuso la porta in faccia ai pensionati che hanno chiesto l’applicazione integrale della sentenza n. 70/2015 della Corte Costituzionale. La questione riguarda la mancata rivalutazione delle pensioni per gli anni dal 2012 al 2015 stabilita – si ricorda – dal decreto “Salva Italia”. Un blocco che riguardava solo gli anni 2012 e 2013 e le pensioni oltre 1.217 euro netti, poi dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale con la citata sentenza.
In poche parole, l’INPS dice che non può riconoscere alcun arretrato, perché la questione è stata disciplinata dal decreto legge n. 65/2015 che ha “recepito” i principi della Corte Costituzionale, riconoscendo, però, la rivalutazione in misura ridotta, ma a cui l’INPS si è dovuto conseguentemente adeguare.
A renderlo noto è stato lo stesso Ente di previdenza con messaggio n. 53/2017.
Ricordiamo i particolari dell’intera vicenda.
La questione riguarda la mancata rivalutazione delle pensioni (il vecchio automatismo della scala mobile) per gli anni dal 2012 al 2015 e le pensioni sopra i 1.217 euro netti (1.405 euro lordi, pari, cioè, a tre volte il minimo Inps), è stato, poi, dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale con la citata sentenza n.70, in quanto oltre “i limiti di ragionevolezza e proporzionalità”.
La pubblicazione della sentenza mentre da una parte rallegrò i pensionati, perché vedevano riconoscersi gli aumenti pensionistici non corrisposti, dall’altra gettò nel panico il Governo a motivo delle ripercussioni che si potevano avere sui conti pubblici.
La naturale conseguenza della sentenza sarebbe dovuta essere l’automatica disapplicazione della norma dichiarata incostituzionale, cioè il blocco biennale degli aumenti pensionistici, il che avrebbe portato le seguenti conseguenze:
– il riconoscimento ai pensionati delle rivalutazioni non concesse per il biennio 2012/2013;
– il ricalcolo delle pensione degli anni 2014 e 2015 al fine di tenere conto delle “rivalutazioni” degli anni 2012 e 2013 non attribuite.
Purtroppo le cose non sono andate secondo le aspettative grazie all’intervento, in questo caso,  assai “tempestivo” del Governo che, consapevole dell’impossibilità di scaricare sul bilancio dello Stato la spesa necessaria per l’applicazione integrale della sentenza (spesa calcolata oltre i 18 miliardi di euro), corse subito ai ripari introducendo misure ad hoc, appunto, con il decreto legge n.65/2015 convertito nella legge n. 119/2015.
In pratica venne introdotta una nuova disciplina di rivalutazione delle pensioni, in misura sensibilmente ridotta ed alquanto arbitraria (tuttavia ritenuta sufficiente, dal Governo, a soddisfare i principi della sentenza), riguardante solo quegli anni interessati dalla sentenza costituzionale.
L’INPS, a sua volta, emanò la circolare n. 125/2015 contenente le modalità operative.
Ma vediamo quali sono state queste misure ad hoc messe a punto dal Governo.
In poche parole, prevedevano che le pensioni venissero sottoposte a tre tipi di rivalutazione diverse tra di loro e, soprattutto, diverse (cioè di misura sensibilmente inferiore) a quella normale, ordinaria e sottoposta al blocco: una per gli anni 2012 e 2013; un’altra per gli anni 2014 e 2015; l’ultima a decorrere dal 2016. Il calcolo venne effettuato prendendo a base l’importo delle pensioni di cui erano titolari i pensionati a dicembre 2011.
Il decreto del Governo, dunque, non ha ripristinato la piena perequazione, conseguenza naturale della sentenza della Corte, bensì ha dettato nuove regole di rivalutazione, in misura alquanto ridotta, valide per quegli anni tenendo conto della pronuncia della consulta.
Per il fatto che l’INPS (alias il Governo) non abbia dato “pienamente” seguito alla pronuncia della Corte, un consistente numero di pensionati (alcuni assistiti anche da avvocati), ha spiegato l’INPS nel messaggio n. 53/2017, stanno presentando istanze in cui chiedono la corresponsione delle somme arretrate scaturenti dall’applicazione integrale della sentenza della Corte Costituzionale.
L’INPS non dice se le richieste dei pensionati siano o non siano fondate, e ciò è ovvio, perché può farlo soltanto  il giudice investito del caso.
Avverso il diniego, lo stesso Istituto avverte, però, che è esperibile il ricorso amministrativo al Comitato di vigilanza della Gestione competente. Detto ricorso va presentato telematicamente in via diretta dal pensionato, dotato di PIN, tramite accesso al sito internet dell’Istituto (www.inps.it) oppure tramite gli Enti di patronato ed altri soggetti abilitati all’intermediazione con l’Istituto, sempre attraverso i servizi telematici da loro utilizzati.
Il ricorso va presentato entro trenta giorni dalla data di ricevimento della comunicazione e se non avviene alcuna decisione nei novanta giorni successivi, il ricorso si intende respinto a tutti gli effetti.
In ogni caso si potrà proporre ricorso, nei termini di legge, all’Autorità giudiziaria competente in materia, da notificare direttamente alla sede territoriale dell’INPS.

francoiannaccone.ilponte@gmail.com

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